Metrica 1. I fondamenti

Metrica latina 1. I fondamenti

La metrica italiana si fonda tipicamente su numero delle sillabe, la posizione degli accenti, e le rime. La metrica latina classica ha invece una impostazione molto diversa, e si basa principalmente sulla successione di sillabe brevi e sillabe lunghe.

La lunghezza o brevità di una sillaba, cioè la sua quantità, si avverte anche in italiano: ad esempio nella parola “tavolo” la sillaba accentata, la prima, dura più a lungo delle altre; e nella parola “cantare”, dove la sillaba accentata è la seconda, è questa a durare più a lungo. In italiano, però, durata e accento sono legati tra loro: in pratica, ogni sillaba accentata è lunga e ogni sillaba non accentata è breve. In latino, al contrario, le sillabe possiedono una lunghezza o brevità – cioè una quantità – loro propria.

Per una discussione specifica su quantità e accenti in latino si può vedere la lezione 1.0 su pronuncia, sillabazione, accento; qui ripeterò solo alcuni concetti fondamentali.

1.1 Quantità delle vocali

Il latino possiede 6 vocali, a e i o u y. Ciascuna di esse può essere lunga o breve, senza alcuna differenza nella grafia. Solo nei manuali, quando c’è bisogno di indicarne la quantità, si usano i segni di lunga (  ̅  ) e di breve ( ˘ ) sovrapposti alla vocale stessa. A differenza che in italiano la quantità di una vocale, sebbene non sia indicata nella stampa, ha valore semantico: cioè esistono omografi, parole che si scrivono allo stesso modo ma hanno significato diverso a seconda della quantità di una vocale. Ad esempio, populus significa “popolo” se la o è breve, ma “pioppo” se la o è lunga; malum significa “il male” se la a è breve, e “mela” se la a è lunga. Sono omografi anche rosa con la a breve, che è nominativo, e rosa con la a lunga, che è ablativo. Differenze non di poco conto; ma ormai sappiamo che possiamo sempre risolvere questi dubbi grazie all’analisi del contesto che ci permetterà di distinguere facilmente fra un popolo e un pioppo, o fra un nominativo e un ablativo.

Il latino possiede anche vari dittonghi, cioè gruppi di due vocali che non vengono separate tra sillabe diverse. I più comuni sono au, eu, ae, oe; più rari ei e ui, e infine yi usato solo in alcuni grecismi. In quanto formati da due vocali, i dittonghi sono sempre lunghi. Si ricordi che, se il dittongo è accentato, l’accento cade sempre sulla prima delle due vocali: si dice dunque Càesar, mai Caèsar.

1.2 Quantità sillabica e sillabazione

Ciò su cui si fonda la metrica latina è però non la quantità delle vocali, ma quella delle sillabe (quantità sillabica). Sono lunghe tutte le sillabe chiuse, che cioè terminano con una consonante; sono lunghe anche tutte le sillabe aperte che contengono una vocale lunga o un dittongo. Sono brevi soltanto le sillabe aperte (che cioè terminano con una vocale) che contengono una vocale breve.

Se non si ricorda come sillabare una parola latina, si può ripassare la lezione 1.0 su pronuncia, sillabazione, accento. A titolo di esempio, si considerino le seguenti parole, dove le sillabe chiuse sono evidenziate in grassetto: pu-el-la, pel-lis, spor-tu-la, mag-nus, pa-tres, du-plex, a-gres-tis. Naturalmente esistono anche molte parole in cui tutte le sillabe sono aperte, come ta-bu-la.

1.2.1 Il sandhi

Nella sillabazione di un verso di poesia, occorre considerare un verso come una catena sillabica unica, senza separazione tra le singole parole. Quindi un verso come

Turnus ut infractos adverso Marte Latinos

andrà sillabato

Tur-nu-su-tin-frac-to-sad-ver-so-Mar-te-La-ti-nos

In poesia, cioè, la sillabazione non tiene conto dei confini delle parole, con un fenomeno che i linguisti usano identificare con un termine sanscrito, sandhi, che significa “legamento, sintesi”. Quindi ad esempio il nome Turnus termina in prosa con una sillaba, –us, che saremmo portati a considerare lunga in quanto chiusa; ma nell’esametro citato sopra Turnus è seguito da ut, e la -s finale forma sillaba con la ŭ che la segue; per cui la sillaba -nu- rimane aperta, e mantiene la quantità “naturale” della –u-, che nella terminazione del nominativo della II declinazione è breve.

1.2.2 sinalefe e afèresi

Gli effetti di questa che possiamo chiamare sillabazione fonosintattica, si fanno anche più evidenti in alcune situazioni. La più importante è la sinalefe (fusione), che viene indicata con il simbolo ‿ ad unire due parole. Quando una parola che termina in vocale è seguita immediatamente da una che inizia per vocale, la vocale finale della prima parola si fonde con la vocale iniziale della seconda, e perde ogni valore prosodico (cioè, non contribuisce a formare una sillaba autonoma). Ad esempio

conticuere‿omnes intentique‿ora tenebant

viene sillabato

con-ti-cu-e-reom-ne-sin-ten-ti-queo-ra-te-ne-bant

Questo può succedere naturalmente anche in italiano: all’inizio della Divina Commedia ad esempio troviamo l’endecasillabomi ritrovai per una selvaoscura”, dove c’è sinalefe tra “selva” e “oscura”, con conseguente annullamento del valore prosodico della prima delle due sillabe coinvolte.

Si ha sinalefe anche se la seconda parola inizia con h-, che non ha valore prosodico; e/o se la prima termina con –m, che nella pronuncia latina tendeva a scomparire dinanzi a vocale.

Quindi il verso

monstrum‿horrendum‿informe‿ingens cui lumen ademptum

si sillaba

mon-strumhor-ren-dumin-for-mein-gens-cui-lu-me-na-dem-ptum,

dove le sinalefi sono evidenziate in grassetto. Si noti che cui forma un’unica sillaba perché ui è dittongo.

Simile è il fenomeno della afèresi, che colpisce non la vocale finale ma quella iniziale di una parola. Essa interessa solo le forme verbali es ed est dopo una vocale o dopo le terminazioni -us, -is, -m. Quindi:

  • homo‿est diventa (e talvolta si scrive) homost
  • factus‿est diventa (e talvolta si scrive) factust
  • testis‿est diventa (e talvolta si scrive) testist
  • factum‿est diventa (e talvolta si scrive) factust

1.2.3 Individuare la quantità sillabica

Una volta sillabato un verso, per poterlo scandire metricamente si deve attribuire ad ogni sillaba la corretta quantità, stabilire cioè se la sillaba è lunga o breve. Ricordiamo la regola generale: sono brevi soltanto le sillabe aperte (che cioè terminano con una vocale) che contengono una vocale breve; sono lunghe tutte le altre.

Si tenga conto del fatto che la consonante doppia x (= cs) chiude, e quindi allunga, la sillaba precedente. Ad esempio, contĕgo (presente) si sillaba con-te-go e la sillaba aperta -tĕconserva la quantità breve della vocale ĕ. Invece la forma contēxi (passato) si sillaba con-tec-si, e la sillaba -tec- è lunga perché chiusa.

Se dunque una sillaba è chiusa non è importante stabilire la quantità della vocale in essa contenuta, dato che tutte le sillabe chiuse sono comunque lunghe. Il problema riguarda soltanto le sillabe aperte, che possono essere lunghe o brevi a seconda della quantità della vocale che contengono; ma ci sono alcune regole che ci aiutano in questo.

  • Una sillaba aperta seguita da vocale è generalmente breve: audĭ-o (ma, in altra forma verbale, audī-re); docĕ-am (ma, in altra forma verbale, docē-mus); gratĭ-a; Marĭ-us. Ci sono eccezioni, per lo più dovute all’origine greca di alcune parole: ad es. Darī-us (dove la –ī è l’esito latino di un dittongo greco).
  • Sono brevi le e ed o latine che in italiano diventano ie ed uo: ad esempio cómmŏves (perché mŏves > ‘muovi’); résŏnat (perché sŏnat > ‘suona’); cónvĕnit (perché vĕnit > ‘viene’).
  • Utile è la conoscenza della morfologia. Ad es.: rosă (nom.), rosā (abl.); rosārum; vocale tematica lunga nella I II e IV coniugazione (laudāre, monēre, audīre) e breve nella III (legĕre). Eccetera.
  • Se si conosce con certezza l’accento di una parola, in base alle regole dell’accento latino se ne conosce anche la quantità della penultima. Ad esempio: pòpŭlus è accentato sulla terzultima, quindi la penultima è breve; condūco è accentato sulla penultima, quindi la penultima è lunga. Ma occorre fare molta attenzione ai possibili fraintendimenti dovute a difformità tra accenti latini e italiani: esistono numerose parole latine (come ad es. philosophĭa, delēgo, regĭmen, opprĭmo, abiĕtes, sepăro, cadĕre, exīlis, ecc.) nelle quali l’accento è diverso da quello che ci si aspetterebbe considerando gli esiti italiani
  • Per stabilire la quantità di alcune vocali è possibile tenere conto della apofonia latina, per la quale le vocali brevi che non si trovano nella prima o nell’ultima sillaba tendono a indebolirsi, mutando verso i, e, u. Si prenda ad esempio il comunissimo verbo făcio, nel quale la a breve in sillaba aperta è protetta dalla posizione iniziale: nei composti questa ‘protezione’ viene meno, e si ha quindi confĭcio, adfĭcio, perfĭcio, ecc. Il fenomeno dell’apofonia caratterizza anche la declinazione dei nomi: così la ĕ finale del nominativo regimĕn muta in ĭ per l’apofonia latina quando si aggiunge una desinenza alla fine della parola, ad esempio per formare il genitivo regimĭnis. Naturalmente vale anche l’opposto: se una vocale subisce apofonia significa che essa è breve. Quindi, se nella forma verbale conficis si individua un composto apofonico di facio, con ciò stesso si identifica la quantità breve della penultima sillaba; e se nel genitivo regiminis si riconosce una forma apofonica del nominativo regimen, analogamente sarà evidente che la seconda i è breve (regimĭnis).