L’ira di Giunone
Memoria ed amnesia letteraria in Virgilio, Ovidio, Apuleio
La dea Giunone non è precisamente nota per il suo carattere dolce e indulgente; chi le reca un’offesa, non può sperare in un facile perdono. Anzi, proprio all’inizio dell’Eneide Virgilio dice che l’ira di Giunone è memor; la dea è una che non dimentica. Questo è un problema per tutti i Troiani, e per Enea in particolare, che con l’ira di Giunone deve fare i conti in ogni momento del lungo viaggio che da Troia in fiamme lo porta fino nel Lazio.
1. L’ira di Giunone in Virgilio
I motivi dell’implacabile ostilità divina sono molti, e Virgilio li ricorda in varie occasioni:
1.12 ss.: Fin dall’inizio ci viene detto che Giunone ama Cartagine più di ogni suo altro luogo di culto, e sa bene che è destino che i Romani, discendenti dei Troiani, distruggano la città. Ogni lettore di Virgilio sapeva bene che il destino si sarebbe compiuto con la cosiddetta terza guerra punica nel 146 a.C., alcuni secoli dopo l’arrivo di Enea nel Lazio e la successiva fondazione di Roma – proprio ciò che Giunone spera di evitare:
V’era un’antica città (l’abitavano Tirii coloni)
posta di fronte all’Italia e alle foci lontane del Tevere,
ricca e fiorente, assai aspra di ardore guerriero: Cartagine.
Unica, più di ogni altra terra l’amava Giunone,
dicono, più di Samo, perfino. Qui le sue armi,
qui il suo carro; che questo sia il regno su tutte le genti,
se lo permetta mai il fato, già allora la dea sogna e agogna.
Ma aveva appunto sentito che, nata dal sangue troiano,
una progenie, un giorno, avrebbe distrutto le rocche
tirie; da lì verrà un popolo in armi superbo, dal regno
vasto, funesto alla Libia: questo filavan le Parche.
1.24 ss.: Poi, veniamo a sapere che la dea non può dimenticare nemmeno la guerra di Troia, durante la quale aveva combattuto dalla parte dei Greci contro i Troiani:
Ciò la Saturnia temeva, memore, in più, dell’antica
guerra a Troia che, prima, per Argo diletta, condusse
(non ancora dal cuore le cause dell’ira cadevano
né gli spietati rancori…)
1.26 s.: Andando ancora indietro nel tempo, la dea ricorda le cause ultime del suo odio per i Troiani: era Troiano Paride, che nel famoso giudizio l’aveva insultata, preferendole Venere; e troiano era anche Ganimede, il bel giovane che faceva da coppiere e amante a suo marito Giove:
nel fondo alla mente, riposto,
resta il giudizio di Paride, ingiuria all’offesa bellezza,
e Ganimede rapito e onorato, e la stirpe a lei odiosa
L’ira di Giunone ha quindi dei motivi che si estendono dal passato mitico al futuro storico; il suo rancore è “eterno” (1.36), e ardente (1.50); il popolo Troiano le è nemico (1.67). La sua ira ritorna più volte, come un refrain, nel primo libro del poema (130, 251), come il suo carattere duro (279, 662, 669).
Tutto questo non fa che espandere e rielaborare il monumentale verso 4, saeuae memorem Iunonis ob iram, “la memore ira di Giunone spietata”.
Non c’è che dire, l’impresa di Enea non si presenta facile. Giunone si piegherà solo alla fine del poema, 12 libri dopo, quando Giove la mette di fronte all’ineluttabilità del destino che vuole Enea stabilirsi felicemente nel Lazio e dare origine a quella che sarà la potenza di Roma. Allora Giunone stessa, sebbene a malincuore, dà il suo assenso. Troia e il suo stesso nome saranno cancellati per sempre, Roma e la sua potenza fioriranno. Aen. 12.826 ss.:
«Lazio» sia, siano i re, nell’arco dei secoli «Albani»,
sia del valore degli Itali forte la stirpe romana:
cadde, e tu fa’ che con tutto il suo nome caduta sia Troia
Da qui in poi, la poesia epica romana dovrà fare i conti con la tradizione fissata da Virgilio, che è fondamentalmente ambigua: una Giunone “perennemente” irata e incapace di dimenticare il suo odio per Troia, e il suo nuovo e quasi inatteso sostegno all’ascesa di Roma.
2. L’ira di Giunone in Ovidio
La contraddizione rischia di esplodere già nei Fasti di Ovidio, composti non troppi anni dopo la morte di Virgilio. Qui la “vecchia” Giunone, acerrima nemica di Roma e profondamente affezionata a Cartagine, rischia di ricomparire. La dea stessa dice che se Roma non la avesse onorata dando il suo nome al mese di Giugno, lei si pentirebbe di aver deposto la sua ira contro i Troiani; si pentirebbe di aver abbandonato la Libia e altri suoi luoghi di culto tradizionali per trasferirsi nel Lazio. Fasti 6.40-48:
Io… non dovrei dare il mio nome ad un mese? Se così fosse, mi pentirei di aver lasciato cadere la mia collera nei confronti di Elettra e della stirpe di Dardano. Era una collera doppiamente giustificata: dal dolore per il ratto di Ganimede e dall’affronto recato alla mia bellezza dal giudice del monte Ida. Mi pentirei di non aver favorito la città di Cartagine, quando il mio carro e le armi erano custoditi in quella località. Mi pentirei di aver sacrificato al Lazio Sparta, Argo, la mia Micene e l’antica Samo….
50 Ma come potrei pentirmi: nessun altro popolo mi è più caro di questo! E qui che voglio essere onorata e che voglio condividere il tempio con il mio Giove!
Tuttavia questo scoppio d’ira è solo ipotetico e momentaneo, e si risolve nel giro di pochi versi – non richiede ben 12 libri come in Virgilio. No, dice la dea, in realtà non c’è popolo che le sia più caro di quello romano, ed è a Roma che lei vuole restare assieme al suo caro Giove. A Roma, a quanto pare, la dea ha stabilito la residenza sua e di suo marito, la casa dove vuole vivere.
In questa riscrittura del tema dell’ira di Giunone c’è tutto il carattere del poeta Ovidio, che ama ed ammira Virgilio ma non rinuncia mai a riscriverlo e decostruirlo, cercando spazi di originalità in una tradizione che è già divenuta monumentale e apparentemente immutabile. Nei Fasti, quello che era un tema epico radicato nella mitologia più remota diviene un momentaneo scatto d’ira, motivato da una pura questione di orgoglio e forse da un carattere irritabile, e soprattutto risolvibile in un quadro di affetti familiari. L’ira e gli odi antitroiani, “memori” ed “eterni” per quasi tutto il poema virgiliano, sono solo un ricordo del passato.
Sullo sfondo di questa evoluzione letteraria, però, ci sono anche mutamenti storici di grande portata. Al tempo dei Fasti, pubblicati nei primi anni dell’era volgare,l’impero augusteo è una realtà tutto sommato recente ma già affermata e solida – per quanto solide e durature possano mai essere queste strutture politiche; ma la storia è comunque sempre dalla parte dei vincitori, e l’ideologia augustea e imperiale ha già solide radici culturali. L’impero abbraccia tutto il Mediterraneo, e la pax Romana non può contemplare al suo interno ostilità irriducibili e… “memori” tra divinità e popoli. Al tempo dei Fasti di Ovidio la vecchia acerrima nemica Cartagine era già stata distrutta un secolo e mezzo prima; Cesare e Augusto avevano già iniziato a ricostruirla e ripopolarla, e la città, con il nuovo nome di Colonia Iulia Concordia Carthago, si avvia a diventare una città florida e importante, di grande prestigio culturale. E, si noti, porta la “Concordia” perfino nel nome! Ce n’è abbastanza per mettere in serio pericolo la tradizione virgiliana su Giunone “eternamente” irata; più che abbastanza per dare lo spunto all’ironia e all’ansia di originalità di un poeta come Ovidio.
3. L’ira di Giunone in Apuleio
Centocinquanta anni dopo i Fasti, nella seconda metà del secondo secolo, la nuova prosperità di Cartagine è un dato ormai acquisito; e proprio in questo periodo lo scrittore africano Apuleio (che proprio a Cartagine visse e lavorò per molti anni) scrive il suo romanzo, le Metamorfosi. Nel corso del racconto un’eroina di nome Psiche è perseguitata da una divinità, come accade di solito agli eroi epici (eroi che di solito sono tutti maschi; ma questo in fondo è un romanzo, non un poema epico). La divinità persecutrice è Venere, e lei chiede aiuto a Giunone. Si ricorderà che Venere proteggeva Enea, e Giunone invece lo perseguitava: viene quasi da pensare che Psiche cerchi di sfruttare a suo vantaggio una prevedibile ostilità tra le due dee. Si rovescerebbe così la prospettiva virgiliana, che vedeva Venere nel ruolo di “amica”, per così dire, del protagonista, e Giunone in quello di persecutrice. Tuttavia, per sfortuna della povera Psiche, le cose non vanno così. Un sovvertimento del modello virgiliano c’è in effetti, ma non va nella direzione che forse Psiche si aspetta: invece, Apuleio sembra sembra seguire il percorso tracciato da Ovidio, spingendosi ancora oltre. Alle suppliche di Psiche Giunone risponde (Met. 6.4.4-5):
Credimi, vorrei tanto risponderti favorevolmente ed esaudire le tue preghiere. Tuttavia, agire contro la volontà di Venere mia nuora, a cui ho sempre voluto bene come a una figlia, sarebbe per me fonte di vergogna.
‘Quam uellem’ inquit ‘per fidem nutum meum precibus tuis accommodare. Sed contra uoluntatem Veneris nurus meae, quam filiae semper dilexi loco, praestare me pudor non sinit.
Tutto si risolve quindi nel quadro di rapporti familiari, come e più che in Ovidio. Venere è nuora di Giunone in quanto moglie di Vulcano, figlio di Giove e Giunone. Già qui c’è un seme di ironia: chi ha letto l’ottavo libro dell’Odissea sa bene che il matrimonio di Venere e Vulcano non era dei più felici, con la dea della bellezza che tradiva allegramente il vecchio e deforme marito con Marte, il bel dio della guerra; è il cantore Demodoco che racconta la storia di questa tresca, che termina in modo ridicolo con lo zoppo ma intraprendente Vulcano che coglie in flagrante i due amanti.
Ma il seme di ironia germoglia e diventa un albero rigoglioso con le parole successive. Davvero Giunone ha sempre amato Venere “come una figlia”? Beh, ogni lettore di Apuleio conosceva certamente la storia narrata nell’Eneide, e sapeva bene che le cose non stavano proprio così – anzi, per nulla. Per ogni romano colto la storia delle relazioni tra Giunone e Venere era una storia di ostilità e sotterfugi, di obiettivi e strategie diverse che cozzano tra loro e contro il destino.
Le parole di Giunone nel romanzo sono un ironico ammiccamento all’Eneide, e una sostanziale riscrittura di una delle sue fondamentali linee narrative. Ma come nel caso di Ovidio, dietro alla inesauribile vena ironica e al talento letterario dello scrittore c’è anche la realtà storica: l’Impero è, ancor più che ai tempi di Ovidio, una realtà consolidata e coesa, e le vecchie inimicizie tra Roma e Cartagine sono una storia ormai passata. È tempo che anche le divinità, come gli uomini, vivano in pace tra loro. E nel gioco della memoria letteraria, un’amnesia selettiva e deliberata finisce per diventare attraente ed opportuna. In fondo, è appropriato che Apuleio concluda la storia di Amore e Psiche con un banchetto in cui gli dèi fanno festa e si riconciliano tra loro. E Giulio Romano, nel realizzare l’affresco qui presentato, sarà stato probabilmente guidato da criteri soprattutto estetici; ma nel quadro che ho cercato di delineare è del tutto appropriato che quel banchetto, una scena tipicamente greco-romana, sia collocato in un contesto rurale caratterizzato dalla presenza di animali caratteristici dell’Africa. Ormai per Apuleio, tutto il mondo è paese.
Per saperne di più:
- Graverini, L.; Nicolini, L.; Lazzarini, C.; Campodonico, N., Apuleio, Metamorfosi IV-VI. Milano: Valla-Mondadori (“Scrittori greci e latini”) 2023.
- Graverini, L., The Negotiation of Provincial Identity through Literature. Apuleius and Vergil, in Apuleius and Africa, ed. by Benjamin Todd Lee, Ellen Finkelpearl, Luca Graverini, New York-Oxford: Routledge 2014, pp. 112-128.
- Graverini, L., Le Metamorfosi di Apuleio. Letteratura e identità, Pisa: Pacini 2007.