Le Metamorfosi di Apuleio, un classico

Le Metamorfosi di Apuleio

Un classico



Vorrei parlare di Apuleio, ma affrontando l’argomento partendo da piuttosto lontano. Parlerò di tecniche narrative, e in particolare di come un autore antico di narrativa può tentare di interessare e coinvolgere i suoi lettori; nel farlo svilupperò alcune idee che ho già sfruttato in un nuovo volume pubblicato dalla Valla-Mondadori, il primo di una serie di quattro dedicati al commento delle Metamorfosi di Apuleio. Partire da lontano mi permetterà di sfruttare anche alcuni raffronti un po’ inusuali con le arti figurative – inusuali ma, come spero di dimostrare, utili per capire come ‘funziona’ la narrativa in generale, sia essa per parole o per immagini.

1. “Willing suspension of disbelief”

C’è stato un tempo in cui i romanzi antichi erano considerati letteratura di livello inferiore, destinata ad un pubblico poco colto e di scarse pretese – magari come le persone ritratte in vari affreschi pompeiani, che forse si danno arie da intellettuali più che esserlo veramente. Poi, pian piano ci si è accorti che si trattava di testi anche sofisticati, degni di essere studiati con le stesse raffinate tecniche di analisi letteraria normalmente usate per le opere più rispettate e autorevoli dell’antichità: alcuni romanzi latini e greci sono ormai entrati, o stanno entrando, nel canone delle opere antiche più lette e studiate. Con tutto questo, però, si corre il rischio di dimenticare che si tratta pur sempre di narrativa scritta non solo per interessare i lettori colti, ma anche per affascinare, incuriosire, coinvolgere emotivamente un pubblico più vasto, che comprende persone dotate di preparazione culturale e di gusti non troppo omogenei.

S.T. Coleridge
S.T. Coleridge (1732-1834)

E’ naturalmente possibile – anzi, necessario – studiare e analizzare con rigore critico anche questo aspetto più emotivo della narrativa antica, ma per farlo occorre attrezzarsi con strumenti un po’ diversi da quelli normalmente usati dal filologo ‘puro’. Ad esempio, è bene ricordarsi della “temporary willing suspension of disbelief” teorizzata da Coleridge, e parlare di identificazione empatica del lettore con i personaggi del racconto, di immersione nell’universo narrativo, di metalessi; ed è rassicurante vedere che, tutto sommato, gli studi classici cominciano ad usare in modo sistematico, e in certi casi a adattare e affinare ulteriormente, anche questi strumenti di analisi.

Leggere le Metamorfosi provando le stesse emozioni di Lucio, identificandosi con lui fino quasi al punto di diventare asini anche noi, soffrire le sue stesse pene, e provare la sua stessa gioia al ritrovare la forma umana (e forse anche un nuovo senso della vita) non significa essere meno filologi; un buon filologo, anzi, dovrà studiare come tutto questo possa accadere, e quali strumenti retorici possono essere usati da un autore di narrativa per trasmettere queste emozioni ai suoi lettori.

2. Le arti figurative

Piero della Francesca, Storia della vera croce
Piero della Francesca, Storia della vera croce

Un primo approccio a questi temi può essere di tipo comparatistico, anche per vedere come certe tecniche narrative siano in fondo universali, non limitate da spazio, tempo e generi espressivi. Proprio per questo è fruttuoso, oltre che intrigante, partire da lontano: ad esempio, dalle arti figurative del Rinascimento. Prendiamo il famoso ciclo di affreschi di Piero della Francesca sulla Storia della vera Croce, conservato ad Arezzo nella basilica di San Francesco. La scena che ci interessa rappresenta il ritrovamento della croce di Cristo da parte di Elena, moglie dell’imperatore Costantino. L’azione ha ovviamente luogo vicino a Gerusalemme, e in effetti bisogna immaginare che la città sullo sfondo sia proprio Gerusalemme. Tuttavia, qualunque aretino si rende facilmente conto che la città è in effetti molto simile ad Arezzo, proprio il luogo dove si trovano l’affresco e chi lo ammira.

Piero della Francesca, Storia della vera croce
Piero della Francesca, Storia della vera croce

Un’altra cosa (tra le tante) degna di nota è che tutti i personaggi sono abbigliati secondo i costumi del tempo di Piero, non come antichi romani. Naturalmente si può dire che questo uso disinvolto di anacronismi e incongruenze geografiche è una consuetudine del tempo, e che non c’è nulla di sorprendente nell’osservarlo in questo affresco.

Però, dire che “fanno tutti così” descrive il fenomeno ma non lo spiega, e trascura le conseguenze che questo modo di rappresentare una scena ha su chi la osserva. E ci fa immaginare un Piero della Francesca che opera in modo quasi automatico e irriflesso.

Piero della Francesca, Storia della vera croce
Piero della Francesca Storia della vera croce

Ora, certamente Piero quando voleva sapeva abbigliare dei personaggi dando loro un senso di alterità, di appartenenza ad una cultura lontana. Lo stesso ciclo di affreschi, ad esempio, contiene una scena che rappresenta Adamo ed Eva e vari altri personaggi, tra cui due che pare siano da identificare con Eracle e Deianira. Piero poteva rappresentare personaggi “altri”, che non sembrassero suoi contemporanei. Se nella scena del Ritrovamento della croce non lo ha fatto, evidentemente non voleva farlo.

Non si tratta quindi semplicemente di rispetto per una consuetudine rappresentativa. Si tratta anche, e forse soprattutto, di un modo di rendere il messaggio dell’affresco allo stesso tempo più universale e più personale; più facile da interiorizzare per chi lo guarda. La Storia della vera croce già di per sé contiene un messaggio universale, riguardante il perdurare dell’influenza salvifica della croce di Cristo attraverso i secoli e i luoghi; gli anacronismi e le incongruenze geografiche dell’affresco non fanno che estendere ulteriormente la portata di questo messaggio, portandolo fino ai tempi e ai luoghi di Piero.

Sansepolcro e Gerusalemme
Sansepolcro e Gerusalemme

Il pittore sta raccontando qualcosa che è accaduto a Gerusalemme, ma Gerusalemme può essere facilmente rimpiazzata da Arezzo o qualsiasi altra città senza alterare il contenuto del messaggio. Racconta qualcosa che è accaduto al tempo di Costantino, ma che può ben essere contestualizzato in qualunque altra epoca. In sostanza, si tratta di un messaggio indirizzato a chiunque stia ammirando l’affresco, in ogni tempo e in ogni luogo. Quanto questa idea di continuità storica potesse fare presa sulle menti dei contemporanei di Piero (e non solo) ce lo può rivelare un dettaglio: il paese natale di Piero si chiamava “Sansepolcro” – in sostanza ambiva ad essere una nuova Gerusalemme, come la città raffigurata nel dipinto.

Insomma, tutto questo fa sì che chi osserva l’affresco sia maggiormente coinvolto, più attento intellettualmente, più recettivo emotivamente. Le incongruenze cronologiche e geografiche che caratterizzano il dipinto di Piero creano un senso di familiarità per l’osservatore esterno, e fanno sì che questi possa immedesimarsi più facilmente nell’universo narrativo.

Cimabue, Crocifisso
Cimabue, Crocifisso

Gli osservatori esterni possono essere anche non rappresentati all’interno del dipinto, ma impegnati in una sorta di dialogo emotivo con i personaggi nel dipinto. Questo è un crocifisso di Cimabue, anch’esso conservato ad Arezzo, datato attorno al 1270. All’estremità dei bracci della croce si trovano due piccole immagini di Maria e San Giovanni, rappresentati in una posa triste e contemplativa. Osservate i loro occhi.

Cimabue, Crocifisso
Cimabue, Crocifisso

Non stanno guardando il Cristo o verso l’alto, come in un crocifisso molto simile di Giunta Pisano, di poco precedente a quello di Cimabue. Guardano direttamente verso di voi, che guardate verso il crocifisso: si tratta di un dialogo silenzioso, che vi coinvolge nella loro tristezza e nella loro contemplazione. Questo incrociarsi di sguardi trasforma l’immagine dipinta, che per sua natura è bidimensionale, in uno spazio tridimensionale nel quale lo spettatore è invitato a entrare, e del quale finisce per fare parte.

3. Apuleio

Ma perché questa lunga digressione sulla pittura del Medioevo e del Rinascimento; che rilevanza ha tutto questo per Apuleio? Come vedremo tra poco, molta più di quanto possa sembrare a prima vista. A un certo punto, nel cap. 27 dell’ultimo libro del romanzo, quindi quasi alla fine, il protagonista Lucio menziona la città africana di Madaura, dove era nato l’autore Apuleio, invece della greca Corinto, che ci si aspetterebbe in quel punto dato che Lucio era nato lì:

…la bocca stessa del grande dio, quella che detta il destino di ciascun uomo, gli annunciava l’arrivo di un cittadino di Madaura

Madaura, in sostanza, è del tutto incongrua in quel contesto, almeno quanto Arezzo nell’affresco di Piero. E le Metamorfosi sono ambientate in Grecia, ma sono piene di riferimenti a cultura, usi e costumi che sono specificamente romani: ad esempio, la città greca di Ipata ha un pomerio (1.21.3) e un Forum cupidinis (1.24.3) proprio come la Roma antica – antica già ai tempi di Apuleio; ha littori ed edili (1.24.7-8), e case dotate di atrii (2.4.1); Lucio e altri parlano un linguaggio avvocatesco, con molti riferimenti a pratiche istituzionali romane; e così via, la lista di esempi potrebbe continuare a lungo.

Come si vede, quanto a incongruenze culturali e geografiche, il romanzo non è da meno dell’affresco rinascimentale. Eppure, tutto questo passa spesso quasi inosservato, o commentato solo brevemente. La menzione di Madaura, ad esempio, è spesso liquidata come un caso di esibizionismo dell’autore, che fa capolino nella propria opera (un po’ come Hitchcock nei suoi film); e ci si accontenta di etichettare la presenza di elementi tipicamente romani in un paesaggio greco come un fenomeno di romanizzazione del racconto.

Intendiamoci, non che questo sia sbagliato; ma credo sia necessario aggiungere che tutto ciò è anche un modo sottile di rendere la storia più concreta, realistica e familiare al pubblico romano e africano, e di facilitare l’immedesimazione in esso del lettore; un modo, anche, di rendere il messaggio del romanzo (qualunque esso sia, se ce ne è uno) più universale e allo stesso tempo più personale, come accade nell’affresco di Piero.

Come nel crocifisso di Cimabue, anche i personaggi del racconto di Apuleio si rivolgono spesso, più o meno esplicitamente, al lettore esterno. Per rendersene conto ma basterà uno sguardo ad un passo molto importante nell’economia narrativa e ‘ideologica’ del romanzo, la descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone (2.4):

Ecco, esattamente al centro dell’ambiente c’è una Diana scolpita in marmo di Paro… Dei cani le fanno da scorta ad ambo i lati, anch’essi scolpiti nel marmo… se si sentisse un latrato vicino, potresti credere che provenisse da quelle gole di marmo… Dal bordo della roccia pendono pomi e grappoli d’uva… Ti potrebbe sembrare quasi che, quando l’autunno profumato di mosto li soffonderà di un colore maturo, si potrà coglierli e mangiarli. Se ti chinassi a osservare la fonte, che scorrendo attorno ai piedi della dea tremola con onde delicate, ti parrebbe che quei grappoli, proprio come quelli che pendono dai loro tralci in campagna, oltre agli altri tratti di verosimiglianza abbiano anche quello di poter ondeggiare al vento. In mezzo a quelle fronde di pietra si scorge una statua di Atteone proteso verso la dea con sguardo curioso e già trasformato in cervo, mentre aspetta di vedere Diana – sia l’immagine di marmo, che il suo riflesso sull’acqua – si lavi.

Qui Lucio si rivolge ripetutamente ad un ‘tu’ non meglio specificato, che inevitabilmente finisce per identificarsi con il lettore esterno. Si tratta di un “effetto di presenza” che catapulta il lettore sulla scena assieme a Lucio; e l’uso di apostrofi alla seconda persona è rafforzato da altri espedienti retorici, come l’uso di deittici e la preferenza data al presente rispetto al passato.

Come nel caso del crocifisso di Cimabue, uno sfondo descrittivo e potenzialmente astratto e ‘distante’ si trasforma in uno spazio concreto e tridimensionale, nel quale l’eloquenza di Lucio ci porta a entrare senza che quasi ce ne accorgiamo. Le barriere che teoricamente separano finzione e realtà si fanno permeabili, e possono venir oltrepassate sia in un senso che nell’altro: è un fenomeno che la moderna narratologia chiama metalessi.

Certamente, tra Piero della Francesca, Cimabue e Apuleio c’è un gap di molti secoli; e questa distanza potrebbe anche essere molto più grande se avessi scelto punti di riferimento più moderni di Piero e Cimabue. D’altro canto, avrei potuto anche selezionare immagini di affreschi pompeiani, quindi certamente anteriori ad Apuleio, e far rimanere questo discorso confinato alla cultura antica. Ma, in fondo, l’effetto finale sarebbe stato lo stesso. La narrativa, sia essa per immagini o per parole, ha come suo scopo principale quello di catturare il lettore sia intellettualmente che emotivamente, di renderlo partecipe in prima persona degli eventi narrati.

Il patchwork culturale e cronologico che, con un certo grado di arbitrarietà e di provocazione, ho scelto di usare per dimostrare questo semplice assunto serve anche a dimostrare che il romanzo di Apuleio è ormai non solamente “canonico” come dicevo all’inizio, ma anche e veramente un classico, in grado di dimostrare la sua attualità interagendo proficuamente con manifestazioni culturali anche profondamente diverse.

Per saperne di più

  • L. Graverini, Come si deve leggere un romanzo: narratori, personaggi e lettori nelle Metamorfosi di Apuleio, in M. Carmignani, L. Graverini, B.T. Lee (eds.), Collected Studies on the Roman Novel. Ensayos sobre la novela romana (Ordia Prima Studia, n. 7), Córdoba (Arg.): Brujas 2013, 119-139.
  • Apuleio. Metamorfosi, I-III. Introduzione, traduzione e commento di L. Graverini; testo critico di L Nicolini, Milano: Valla-Mondadori 2019.